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FEMMINICIDIO... STALKING??? NO, GRAZIE

Ultimo Aggiornamento: 26/11/2014 00:04
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06/11/2014 15:50
 
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Ciao Francesca,
non so se va bene questa sezione per l'argomento e gli articoli che riporto dal web... altrimenti sposta o cancella questo topic.
Un caro saluto.


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FATTI E MISFATTI DI SOPRUSO, VIOLENZA E MALTRATTAMENTI, SCHIAVIZZAZIONE DA PARTE DI UN INDIVIDUO DI SESSO MASCHILE SU UNA PERSONA DI SESSO FEMMINILE



<<PIOMBINO. Nell’escalation di soprusi psicologici e fisici a cui ha costretto per quasi due anni la fidanzata livornese, tra i quali sottoporla alla macchina della verità e farle scrivere un memoriale elencando le doti di amante del compagno, c’è un episodio dal quale emergerebbe - secondo gli inquirenti - tutta la violenza di cui è stato capace Christian Guerra, 41 anni, rampollo di una famiglia di albergatori emiliani.

Raccontano alcuni testimoni ricordando quanto avvenuto. «Eravamo in strada e le ripeteva che era una cagna mentre lui era l’imperatore Cesare Augusto. Per questo doveva sottomettersi alle sue volontà sessuali, altrimenti non le avrebbe fatto usare il cellulare per chiamare casa».

Un ego smisurato e la volontà di sottomettere, sono tratti ricorrenti nella personalità del 41enne condannato con rito abbreviato a quattro anni e quattro mesi di reclusione dal giudice Gioacchino Trovato che ha anche disposto per la vittima una provvisionale sul risarcimento danni pari a 25mila euro. L’uomo, che dal giorno in cui è stato iscritto nel registro degli indagati non ha mai provato a spiegare o a giustificare i suoi comportamenti con gli investigatori, era accusato anche di violenza sessuale, lesioni e stalking. L’indagine della polizia, coordinata dal pubblico ministero Fiorenza Marrara, è iniziata nell’aprile scorso quando al centralino della Questura è arrivata una chiamata, proveniente da Piombino, dove si raccontava che un uomo era entrato in casa facendo violenze nei confronti di una giovane donna.

Quando gli agenti sono arrivati, hanno cercato di ricostruire la storia parlando prima di tutto con la presunta vittima. «Io e il mio compagno - ha spiegato - viviamo insieme a Bologna. Quando ho deciso di venire dai miei genitori in Toscana ha perso la testa ed è venuto a cercarmi».

È setacciando il passato dei due che sono emersi tutti gli episodi che sono stati poi contestati all’imputato, difeso dall’avvocato bolognese Maurizio Merlini che a breve potrebbe decidere di presentare appello.

Tra l’ottobre 2012 e l’aprile dell’anno successivo, il 41enne avrebbe costretto l’allora fidanzata a subire violenze di ogni genere: «la picchiava con schiaffi in testa, la sbatteva contro il muro, l’armadio, la portiera dell’auto e una scrivania, causandole ecchimosi». E ancora: «la faceva dormire per terra come punizione e non la faceva mangiare, ripetendole che era troppo grassa per lui».

Ma non solo, perché «le controllava il cellulare e la costringeva, per gelosia - si legge nel capo d’imputazione - a lasciare il lavoro di impiegata che svolgeva».

Il reato di stalking - secondo gli inquirenti - si sarebbe configurato quando la donna ha deciso di lasciare il compagno dopo che quest’ultimo ha abusato di lei in una stanza d’albergo. Era il 2 giugno del 2013 e la violenza sessuale si sarebbe consumata nell’hotel di Piombino dove Guerra aveva preso una stanza.

È dal giorno successivo che le vessazioni sarebbero aumentate: centinaia di sms e mail, telefonate ad ogni ora del giorno e della notte. Un comportamento che ha generato nella vittima «un perdurante e grave stato di ansia, tale da costringerla a cambiare le sue abitudini quotidiane» e a vivere nel terrore per sé e per i suoi familiari.

Un timore che è diventato realtà nella primavera scorsa quando il 41enne ha realmente inviato ai familiari della ex il manoscritto «redatto in parte sotto dettatura dalla donna, nel quale la ragazza doveva descrivere la relazione con i suoi passati partners e come il Guerra fosse a loro superiore».

Nonostante questo ultimo ricatto il no della vittima a proseguire la relazione avrebbe mandato su tutte le furie lo stalker tanto da andare fino a Piombino per farsi giustizia. È qui che gli agenti lo hanno fermato>>.




iltirreno.gelocal.it/piombino/cronaca/20...-della-ex-1.10246904


www.comune.piombino.li.it/epress/archivi...uti_0_26607_0_6.html





[Modificato da Versolibero 06/11/2014 20:17]


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"Le parole sono 'contenitori' troppo angusti per le mie emozioni e quando, leggendo, le sento 'soffrire'
o mi segnalano delle 'sofferenze' corro a liberarle senza pensarci due volte per provarne di più adatti".
(citazione di EEFF)
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06/11/2014 15:59
 
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<<Comunicato stampa
Stalking, prevenire il fenomeno è un dovere verso i cittadini del nostro territorio
Comunicato - Inserito da Domenico Longo 11 luglio 2014


Lo stalking è un fenomeno criminale che ad oggi miete le sue vittime sia in senso psicologico che, purtroppo, anche fisico. Un fenomeno contro il quale, da anni, psichiatri, criminologi, giuristi, psicologi ed educatori combattono nella speranza e nella fiducia di riuscire ad eliminarlo definitivamente. La collaborazione e la sinergia di queste forze sta, man mano,trovando sempre nuove strategie per eliminare o ridurre il problema.
Non si tratta solo del reato in sé, crimine che senza dubbio deve essere punito duramente, ma si tratta di compiere una disamina attenta e ponderata del problema che deve essere considerato a monte e che va studiato all'interno delle complicate e delicate dinamiche dalle quali è innescato e che, a sua volta, inevitabilmente innesca.

Lo stalking è soprattutto aberrazione e annientamento, un male che porta alla distruzione sia chi lo agisce, (in quanto lo stalker vive nella vendetta e nella violenza non avendo più altro scopo nella vita se non quello di distruggere la sua preda), sia chi lo subisce, perché la vittima è colei che vive nella costante paura che la sua vita sia rovinata per sempre o addirittura distrutta fino a portarla alla morte, a volte vista come unica soluzione per uscire dall'incubo in cui, senza capire le ragioni, si trova invischiata. Questo crimine non costituisce solo una violazione della libertà individuale, ma anche una situazione psicopatologica che deve essere curata, laddove emergono quadri di evidenti disturbi di personalità, ma soprattutto deve essere applicata una politica di prevenzione, tramite interventi educativi mirati, che siano rivolti ai ragazzi a partire dall'ambito scolastico e familiare.

Risulta quanto mai importante parlare di prevenzione educativa dello stalking, ed è altrettanto importante capire la radice di tale problema e le sue origini. La conseguenza di una vita deprivata, di emarginazione, di disagio sociale o di maltrattamenti, si può tradurre in questa conseguenza visibile a tutti: lo stalking; il tratto più evidente di un disegno di sofferenza e abbandono quasi invisibile negli anni. Lo stalker generalmente narra una storia di dolore spesso radicato in un'infanzia in cui l'unica arma di difesa dalle percezioni d'indifferenza è stata la feroce negazione dell'amore, cresciuta silenziosamente nel paradosso di un bisogno disperato di affetto. La fragile personalità dello stalker si struttura, spesso(con difficoltà) sul sentore di essere vittima di un (rifiuto originale), il rifiuto supremo, quello delle figure di riferimento, in particolare, il rifiuto materno.

La ferita inferta nella tenera gioventù muta in una forma d'insicurezza cronica, che prelude ad un terrore dell'abbandono ossessivo e costante che troppo spesso finisce per evocare l'allontanamento delle persone amate, in quanto l'attaccamento dell'individuo che non ha esperito una forma sana di amore, è l'attaccamento di un (analfabeta delle emozioni), che per tutta la vita tenterà di instaurare rapporti duraturi senza esserne realmente capace. Il comportamento ansioso e incapace di elaborare l'abbandono del bambino (rifiutato) tornerà prepotentemente ad insediarsi nella vita dell'individuo adulto nel momento in cui quest'ultimo sentirà di essere allontanato dalla persona oggetto del desiderio, portandolo a una regressione che lo costringerà a rimanere legato a doppio nodo all'ossessione della figura che gli negherà l'accudimento di cui sente di avere, da sempre, un disperato bisogno.

Qualsiasi abbandono in età adulta evocherà l'abbandono (sommo) percepito nelle fasi più delicate della crescita, annebbiando la capacità cognitiva del futuro stalker di rendersi autonomamente consapevole dell'insensatezza del suo comportamento nei confronti della figura idealizzata come quella del (salvatore), una figura verso la quale proverà sentimenti contradditori ed ossessivi, volti al recupero del suo amore totalizzante o alla sua definitiva distruzione, sia psichica che sovente, anche fisica.

Diviene più che mai urgente e necessaria la realizzazione di specifiche attività di carattere informativo, educativo e formativo per sostenere iniziative di prevenzione dello stalking, nelle istituzioni scolastiche, perché senza una reale sinergia che vada a toccare l'aspetto culturale della questione, si rischia di continuare a remare controcorrente. La violenza è anche una questione culturale ed è tempo che questo assunto diventi un dato riconosciuto: per contrastare il fenomeno dello stalking bisogna prima conoscerlo. L'intervento non può essere settoriale ma sinergico, non un intervento standard, ma creato appositamente per ogni situazione, perché ogni persecuzione, ogni stalker e ogni vittima, hanno una propria storia e soprattutto una propria evoluzione.

Servono misure preventive, di sostegno alle vittime e competenza da parte degli operatori che svolgono azione educativa per prevenire l'insorgenza dello stalking. Nell'analisi fin qui condotta si deve porre l'accento sulla prima forma di società entro la quale l'individuo è collocato fin dalla nascita: la famiglia; nel cui ambito il bambino, forma la sua personalità e soprattutto, getta le basi per il divenire. Essa è il luogo dentro il quale egli compie le prime esperienze fondamentali e si prepara all'ingresso nella società vera e propria. Ecco perché risulta fondamentale innanzitutto dal punto di vista della prevenzione educativa, monitorare le famiglie che presentano dei disagi, dove le figure genitoriali non rispecchiano i canoni educativi adatti ad una formazione corretta della personalità del bambino.

Gli assistenti sociali e gli organi competenti devono intervenire in quelle situazioni nelle quali, violenza, deprivazione affettiva e culturale, povertà e abusi, mettono a rischio l'equilibrio del bambino, impedendo il trascorrere di un'infanzia serena e ledendo la sua psiche al punto da sviluppare nel tempo disordini di personalità e atteggiamenti non idonei per un corretto inserimento sociale. Nel suo ingresso a scuola, il bambino, si relaziona con una realtà variegata e sfaccettata, nella quale, per riuscire a inserirsi correttamente, necessita di un'educazione appropriata e un'affettività idonea per instaurare rapporti interpersonali significativi e per essere accettato dai suoi coetanei.

Gli insegnanti, nello svolgimento del proprio lavoro, non devono curare solo lo sviluppo delle potenzialità cognitive del discente, ma hanno anche il compito di focalizzare l'attenzione sullo sviluppo della sua personalità, cercando di individuare i comportamenti disfunzionali che non permettono al bambino di crescere anche emotivamente. Con la guida degli educatori, egli deve imparare a gestire i dinieghi, i rifiuti, e soprattutto accettare l'idea che vi sia la possibilità che un altro coetaneo non voglia instaurare un rapporto con lui o che non nutra nei suoi confronti un sentimento di amicizia; anche questo serve a prevenire eventuali comportamenti disfunzionali nell'età adulta legati all'incapacità di gestire le frustrazioni derivanti da probabili rifiuti.

Lo stalker, (rifiuta di accettare il rifiuto), non riesce neanche a considerare possibile che la persona oggetto del suo insano desiderio, non voglia avere alcun contatto con lui o non voglia riprendere un rapporto interrotto. Nell'ambito del contesto educativo, si dovrà focalizzare l'attenzione sul (bambino problematico) e pertanto, l'insegnante dovrà correggerne la visione del mondo servendosi dell'ausilio di specialisti qualificati, come ad esempio neuropsichiatri infantili e psicologi, i quali, con strumenti idonei, riusciranno a capire quale realmente sia il disagio del bambino e tramite attenta analisi, usare gli strumenti più adatti per farlo uscire dal disagio nel quale si trova. Ecco perché la prevenzione educativa è essenziale.

Diviene in tal senso importante effettuare una riflessione: lo stalker, nella maggior parte dei casi, è un soggetto con una devianza, con una personalità disfunzionale e con una profonda incapacità di accettare il rifiuto e l'abbandono. Pertanto, si può affermare che in molti casi lo stalker non è altro che il bambino di ieri che a causa di violenze, deprivazioni, anaffettività, abbandono, incapacità di gestire problematiche per lui eccessive, è diventato il criminale di oggi, poichè non è riuscito ad elaborare i contenuti della sua infanzia disagiata. La prevenzione educativa è il mezzo fondamentale per riuscire ad evitare che il bambino, trasformi disagi e sofferenze in vere e proprie devianze; in comportamenti disfunzionali che nel tempo gli precludono la possibilità di creare rapporti interpersonali, che siano essi di amicizia o d'amore.

Solo così, arrivando all'età adulta, sarà capace di gestire il rifiuto, accettare l'abbandono e non creare quel circolo vizioso di molestie e persecuzioni che caratterizzano lo stalking. Stalking: un crimine, un fenomeno sociale, un disagio interiore, un abuso del più forte su chi è indifeso; una realtà che però può e deve essere cambiata anche grazie alla consapevolezza che chi lo subisce deve denunciare e soprattutto alla capacità delle forze preposte di intervenire in tempo. Ma, (in tempo), non vuol dire fermare la violenza, vuol dire evitare che essa nasca, vuol dire … prevenzione.
Proprio grazie ad essa, si salvano due vite, quella di chi sarà vittima e quella di chi, a causa dei propri disagi, distruggerà se stesso e gli altri.

Nota - Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di FoggiaToday>>


www.foggiatoday.it/cronaca/prevenzione-stalking.html



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"Le parole sono 'contenitori' troppo angusti per le mie emozioni e quando, leggendo, le sento 'soffrire'
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06/11/2014 16:18
 
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Origini e significato del termine femminicidio.

In lingua inglese il termine femicide (femicidio) veniva usato già nel 1801 in Inghilterra per indicare "l'uccisione di una donna".

Il femminicidio, come cita il Devoto-Oli è "Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l'identità attraverso l'assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte".


ACCADEMIA DELLA CRUSCA: Femminicidio: i perché di una parola


Quesito:

<<C’è necessità di una parola nuova per indicare qualcosa che accade da sempre? Che senso ha sottolineare il sesso di una vittima? Non è offensivo per le donne parlare di loro usando la parola femmina, che pare “più propria dell’animale”? Perché non usare donnicidio, muliericidio, ginocidio o ciò che già abbiamo, uxoricidio? Legittimando femminicidio non provocheremo una proliferazione arbitraria di parole in -cidio?>>


Risposta:

<<Recentemente si parla molto di femminicidio (o anche femicidio e femmicidio e del valore delle varianti vedremo dopo) intendendo non solo l’“uccisione di una donna o di una ragazza”, ma anche “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”.
Abbiamo riportato la definizione di femminicidio in Devoto-Oli 2009, ma il termine è attestato anche in ZINGARELLI a partire dal 2010 e nel Vocabolario Treccani online, mentre GRADIT 2007 ha femicidio registrato anche nei Neologismi Treccani 2012 come “femmicidio o femicidio”.

Ci sono state e ancora ci sono resistenze all’introduzione del termine, quasi fosse immotivato o semplicemente costituisse un voler forzatamente distinguere tra delitto e delitto semplicemente in base al sesso della vittima; quasi fosse neologismo frutto di una delle tante mode linguistiche più che del bisogno di nominare un nuovo concetto.
In effetti ciò che viene oggi indicato da questa parola è anche storia antica, anche per il nostro paese, come nota Silvia Leonzi in A casa con il nemico pubblicato nel numero di Marzo 2013 della rivista “Il Carabiniere”:

di omicidi femminili commessi da uomini la nostra storia è tristemente piena [...] e allora, perché solo adesso si sente l'esigenza di trovare un nome specifico per questa realtà? Che cos'hanno di diverso queste morti? Cos'è cambiato nella nostra percezione di un fenomeno tanto oscuro quanto atavico?

Una risposta possibile a questa domanda è in quanto Michela Murgia scriveva nel suo blog il 2 settembre 2012 a proposito di una notizia pubblicata quel giorno su Repubblica.it in questa forma:

Fano, uccide la moglie in un raptus di gelosia “L'uomo [...] ha accoltellato la donna, che ha tentato di difendersi inutilmente, dopo un violento litigio davanti ai quattro figli…”.

«Nel giornale che vorrei – scrive la Murgia – la notizia sarebbe stata data così: Fano, giovane donna uccisa a coltellate davanti ai suoi figli e poi “Arrestato l'autore del violento femminicidio: era il marito”».
Non si tratta solo di una parola in più, allora, per quanto densa di significato, ma anche e soprattutto di un rovesciamento di prospettiva, di una sostanziale evoluzione culturale prima e giuridica poi.
Quanta strada, almeno nel nostro paese, sia stata percorsa dalle istituzioni è efficacemente sintetizzato nel testo citato di Silvia Leonzi di cui si ricorda solo un passo a beneficio dei più giovani:

Ed è proprio per la salvaguardia dell'onore che fino al 1981, nel nostro ordinamento, […] per un uomo [che uccide] la moglie, se colto da un impeto d'ira determinato dall'offesa recata [sono previste] pene minori rispetto a un analogo delitto di diverso movente, dal momento che l'oltraggio arrecato all'onore è ben più grave rispetto al delitto riparatore. Infatti, l'articolo 587 del Codice penale, abrogato con la Legge n. 442 del 5 agosto 1981, contempla una pena ridotta per chi uccida la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere "l'onor suo o della famiglia".

Credo che questo basti a dare conto delle proporzioni e delle conseguenze del rovesciamento del punto di vista auspicato dalla Murgia: non si tratta solo di parole di moda evidentemente.

Alcuni vedono nell’introduzione di femminicidio esclusivamente la sottolineatura (forzata) dell’appartenenza della vittima al sesso femminile, come per esempio si argomenta in un messaggio “postato” sulla pagina Facebook di La lingua batte, rubrica settimanale di Radio3 che si è recentemente occupata di femminicidio:

La parola omicidio deve essere eliminata dal vocabolario giuridico, ma non sostituita dalla parola femminicidio, o da qualsiasi altra parola che indichi una violenza mortale di genere. Siamo tutti esseri umani; perché, quindi, non usiamo umanicidio?

A questa domanda possiamo rispondere che se ci riferiamo a una situazione “neutra”, una donna uccisa nel corso di una rapina in banca, si può parlare di omicidio (o magari chissà in futuro di umanicidio) ma di fronte a una notizia come questa

India, violentata e uccisa a sei anni: Nuovo, agghiacciate caso di stupro nell'Uttar Pradesh: la piccola è stata strangolata e gettata in una discarica (La Repubblica.it 19.04.2013)

quale parola si dovrebbe usare? È un omicidio? È un infanticidio? O è qualcosa di più e di diverso, qualcosa che si colloca all’interno di una visione culturale che vede il femminile (non si può certo parlare di donne in questo caso) disprezzato e disprezzabile? L’uccisione è solo (!) un “passaggio” di una sequenza che prevede prima il sequestro, la violenza, lo stupro e dopo l’abbandono del cadavere tra l’immondizia, il tutto da parte di un uomo su una bambina. Si potrebbe forse rispondere che si tratta della somma di una serie di crimini, tutti previsti e denominati; ma alla base di questa orribile combinazione c’è la concezione condivisa della “femmina” come un nulla sociale
. Insomma non si tratta dell’omicidio di una persona di sesso femminile, a cui possono essere riconosciute aggravanti individuali, ma di un delitto che trova i suoi profondi motivi in una cultura dura a rinnovarsi e in istituzioni che ancora la rispecchiano almeno in parte.

Ma a questa istituzione ci si rivolge per le parole quindi occupiamoci di quelle.

In primo luogo un’osservazione banale: la nostra lingua prevede già alcune parole che specificano quale sia la natura del rapporto tra l’uccisore e la vittima di un omicidio (fratricidio, sororicidio, matricidio, parricidio, uxoricidio) o caratteristiche particolari della vittima (il già citato infanticidio, feticidio termine del diritto penale). Le parole “da aggiungere alla lista”, come dicevamo, sono due: femicidio/femmicidio e femminicidio; la prima è un adattamento dell’inglese femicide, mentre per la seconda siamo probabilmente debitori allo spagnolo del Centro America feminicidio, almeno per l’attuale rilancio.
Si tratta in effetti di un intrecciarsi di storie di parole nate in paesi diversi che hanno seguito propri percorsi fino a sovrapporsi oggi grazie a movimenti culturali che hanno investito quantomeno tutto il mondo occidentale.

È ormai noto (per studi e pubblicazioni di ambiti anche diversi a cui si rimanda nella nota per approfondimenti) che l’evoluzione “ideologica” della voce femicide è iniziata a partire dagli anni Settanta del ’900 in seno ai movimenti femministi statunitensi, ma il termine era già in uso in inglese fino dall’800, a significare “the killing of a woman”, l’uccisione di una donna, e come tale è registrato nel Law Lexicon di J.JS. Wharthon (1848).
La progressiva evoluzione del significato è avvenuta in fasi successive, per cui, dagli anni ’90, si specifica che “l’uccisore è un uomo e il motivo per cui la donna viene uccisa è il fatto di essere donna”, fino a precisare, all’inizio degli anni Duemila, che l’uccisa e l’uccisore possono essere anche minori, ovvero ragazze o bambine uccise da adolescenti; così, nella formulazione appena citata, si sostituiscono a uomo e donna i termini femmina e maschio.

Sempre all’inizio del nostro secolo si estende l’impiego di femicide a tutte le situazioni in cui le donne vivono in uno stato di oppressione e sotto la continua minaccia di essere uccise.


Nello spagnolo americano sono gli anni Settanta del Novecento (stando al corpus di Google libri) a vedere la proposta del termine: è del 1975 Feminicidio: la autodestrucción de la mujer di Enrique Víctor Salerno pubblicato a Buenos Aires. Successivamente feminicidio appare usato in pubblicazioni riconducibili ad ambienti progressisti latino-americani e sembra percorrere passi analoghi a quelli di femicide nella parte settentrionale del continente; non necessariamente però al loro seguito, se nel 1989, nelle Propuestas para una nueva sociedad di Alberto Koschützke e Manuel Agustín Aguirre, edite a Caracas, si sosteneva che “Afirmar que la violación constituye un feminicidio, no es una exageración”.

Come negli USA gli anni Novanta sono stati decisivi nella precisazione e diffusione di femicide, soprattutto grazie alla voce della criminologa Diane Russel, così è stato anche per l’affermarsi di feminicidio nel mondo latino-americano in cui emerge l’impegno di un’altra donna, l’antropologa e sociologa messicana Marcela Lagarde.
Allo stesso modo dell’inglese femicide, anche l’italiano femminicidio risale all’Ottocento, ma ha natura di creazione letteraria e non di termine di rilevanza giuridica, come invece aveva il corrispettivo d’Oltre-Manica.
(...........)

Tornando in Italia, ritroviamo il termine in una pubblicazione del 1923 in cui la voce assume maggiore pertinenza visto che si tratta della cronaca di un delitto: “Il più truce delitto è l'ottimamente chiamato femminicidio commesso da un certo Pietro di Vicchio Fiorentino (“Vita e pensiero”- Vol. 9, 1923, p. 472). Si tratta però di affioramenti di una possibilità della lingua che solo negli anni Settanta, come già visto per inglese e spagnolo, con l’affermarsi dei movimenti femministi, verrà recuperata forse senza conoscere gli antecedenti italiani, ma avendo presenti quelli del nuovo continente: l’archivio storico della “Stampa” ce ne fornisce un esempio in un articolo di Maria Adele Teodori, di cui riportiamo un passo piuttosto ampio perché a nostro parere contiene molte se non tutte le “nuove” implicazioni del termine:

Ha ragione il movimento femminista a collegare ruolo della donna e sua oppressione allo stupro. [...] Né menti malate né raptus, come ne parlano gli egregi difensori degli stupratori nelle loro fiorite arringhe; il potere virile si è sempre affermato, seppure per varie intensità di gradi, con la forza fisica. E la ribellione va punita. La lezione deve servire a mantenere la donna assoggettata. Oggi la guerra è più evidente perché la donna sfugge alla privatezza, vive maggiormente fuori dalle pareti domestiche: la violenza privata diviene così un fatto pubblico. La tortura quotidiana dello schiaffo, della percossa, dell'aggressività parolaia sfocia nel massacro sessuale sui prati, sui sedili delle auto, in squallidi scannatoi di periferia. Ma il femminicidio quotidiano non avrebbe da solo raggiunto queste drammatiche proporzioni se non fosse sorretto e agevolato dalla violenza delle istituzioni nei suoi anche meno palesi messaggi. (CRESCE LA RABBIA DOPO TANTI STUPRI, ANCHE PSICOLOGICI La tentazione del femminismo armato, 4. 4.1977, “StampaSera” n. 68)

(......)
Le donne [in Afghanistan] non possono lavorare, andare a scuola, frequentare i bagni pubblici, lavare vestiti al fiume, camminare da sole, viaggiare se non accompagnate da un maschio adulto della loro famiglia, calzare sandali che emettano suoni, essere assistite da un medico durante il parto. Questi divieti si sono tradotti in un femminicidio prolungato, per fame o per infezioni, ma non sempre indiretto. Presunte adultere sono state lapidate, presunte prostitute fucilate negli stadi (probabilmente vedove che non sapevano come sfamare i figli). (Guido Rampoldi, Le prigioniere del burqa)

Nel 2006 nello stesso archivio il termine, giunto alla quarta occorrenza, era ancora virgolettato; fino al 2010 non erano state raggiunte 10 occorrenze, ma da quell’anno è un crescendo continuo (22 nel 2010, 31 nel 2011) che esplode nelle 276 del 2012; quest’anno superava le 400 il 22 giugno. Nello stesso archivio femicidio appare dal 2005, ma fino all’aprile di quest’anno non arrivava a 20 occorrenze.
Il calco inglese rimane in un primo tempo per lo più circoscritto all’ambito degli studi di settore (cfr Lorenza Pleuteri, Isabella Merzagora Betsos, Il femicidio. Vittime di omicidio di genere femminile a Milano e provincia negli anni 1990/2002, in “Rassegna italiana di criminologia”, 2004 Vol. 15). Nel 2008 Barbara Spinelli pubblica Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale e anche Femicide e Feminicidio: nuove prospettive per una lettura gender oriented dei crimini contro donne e lesbiche sulla rivista specializzata “Studi sulla Questione Criminale”.
La compresenza di più termini ha fatto sì che, almeno negli scritti specialistici, essi vengano usati con significati diversi:

In questa sede chiamiamo dunque femicidio la forma più estrema di violenza contro le donne per distinguerla ed al contempo metterla in relazione col femminicidio, ossia la violenza contro le donne in tutte le sue forme miranti ad annientarne la soggettività sul piano psicologico, simbolico, economico e sociale, che solitamente precede e può condurre al femicidio.
Il concetto di femicidio accolto comprende tutte le morti di donne avvenute per ragioni misogine, anche per fatto delle istituzioni (per esempio per aborti forzati, interventi chirurgici non necessari come l’isterectomia, sperimentazioni sui loro corpi) o di pratiche sociali patriarcali (mutilazioni genitali) o culturali che portano a lasciar morire le figlie femmine di malattia, incuria, fame, per privilegiare la cura del figlio maschio, come accade ad esempio in alcune regioni di Cina e India.
(Karadole p. 18 sg)


Veniamo adesso alle possibili alternative. A coloro che propongono uxoricidio abbiamo forse già dato una risposta: non solo le mogli e nemmeno solo le conviventi hanno il triste privilegio di essere vittima di questi delitti e non solo i mariti (o i conviventi) ne sono gli autori.

Muliericidio o anche donnicidio escluderebbero le vittime bambine e adolescenti e metterebbero in ombra, con un recuperato senso del pudore latitante in altre occasioni forse più opportune, il tratto dell’appartenenza delle vittima al genere femminile, esplicito in femminicidio o femicidio, che è anche il motivo della loro morte (a questo proposito si veda anche quanto scrive Rosario Coluccia in un articolo che pubblichiamo qui di seguito).

Diversa accezione hanno invece le altre due proposte che ci giungono ancora dal mondo anglosassone: ginocidio e gendercidio, entrambe non registrate nei vocabolari. Le due forme sono state introdotte dalla scrittrice e filosofa americana Mary Anne Warren in Gendercide. The implication of Sex Selection (1985) nel quale, mettendole in relazione con genocidio, indicava con questi termini le pratiche sistematiche prodotte da una cultura sostenuta anche dalle istituzioni, tese all’eliminazione delle donne come genere, come le mutilazioni genitali, gli stupri di massa o l’aborto selettivo dei feti di sesso femminile. In questo senso quindi il ginocidio (cfr Daniela Danna, Ginocidio. La violenza contro le donne nel mondo globale, Milano, Eleuthera 2007) o gendercidio (cfr Francesca Paxi, L’Onu: metà del mondo non è per le donne. Il “gendercidio”: una strage silenziosa, “La Stampa” 16.06.2011) si oppongono al femminicidio e al femicidio in cui la violenza è esercitata contro la singola donna.

Infine rispondiamo a chi vede nella proliferazione di termini il rischio di una produzione “ipertrofica” del suffissoide -cidio (.....)
Rispondiamo che
ciò che dovrebbe essere condannato sono gli atti e non le parole che servono a denunciarli e che il “rischio” è ormai una realtà: nel linguaggio giornalistico e non solo in quello è già penetrato il termine omocidio a indicare l’uccisione di una persona omosessuale in quanto tale da parte di una persona omofoba. Per capire i perché di questa parola può forse essere utile la lettura di OMOCIDI, gli omosessuali uccisi in Italia di Andrea Pini (2002) che racconta le vittime della violenza omofoba in Italia.>>



QUI E' UN ESPERTO -LINGUISTA-, Rosario Coluccia, a riferire il perché della NECESSITA' DI CREARE UNA NUOVA PAROLA QUALE "FEMMINICIDIO":

in un articolo articolo pubblicato sul "Nuovo Quotidiano di Puglia" l’11 maggio 2013
Ancora su femminicidio

<<<<Di mestiere faccio il linguista. E così spesso ricevo telefonate, qualche volta lettere, da amici, conoscenti, studenti, che chiedono il mio parere su espressioni e parole che sentono in televisione o leggono sui giornali. Nulla di strano, la lingua cambia in continuazione, è un organismo vivente, vive come vivono gli esseri umani che la usano. Lo sapevano già gli antichi greci, lo sanno i linguisti moderni.(....)

Un collega (che)si interessa alle questioni della nostra lingua, mi ha chiesto un parere su una parola che oggi si usa moltissimo. Si tratta di «femminicidio» che indica l’assassinio di una donna, spesso perpetrato dal marito, dal fidanzato, dal compagno, a volte da persona sconosciuta. (...
...)la questione posta dal mio collega:
«Se l’italiano ha già la parola omicidio, che indica l’assassinio dell’uomo e della donna, perché creare una parola nuova? Non è inutile?».

La risposta, come spesso càpita, ce la danno i vocabolari. La voce «femmina» viene spiegata cosi: ‘essere umano di sesso femminile, spesso con valore spregiativo’. Badate all’aggettivo «spregiativo», la soluzione è lì. Il «femminicidio» indica l’assassinio legato a un atteggiamento culturale ributtante, di chi considera la moglie, la compagna, l’ amica, la donna incontrata casualmente, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari; se la proprietà viene negata, se un altro maschio si avvicina all’oggetto che si ritiene proprio, scatta la violenza cieca.

Io non so se questo atteggiamento sia generato da alcune abitudini della società in cui viviamo: una società che, insieme, esibisce sfacciatamente il corpo femminile visto come una merce e preferisce ascoltare chi urla e offende invece di riflettere sulla ragionevolezza delle argomentazioni.
(...)

Torniamo alla lingua. Se una società genera forme mostruose di sopraffazione e di violenza, bisogna inventare un termine che esprima quella violenza e quella sopraffazione. E quindi è giusto usare «femminicidio», per denunziare la brutalità dell’atto e per indicare che si è contro la violenza e la sopraffazione. Bene ha fatto la lingua italiana a mettere in circolo la parola «femminicidio»; il generico «omicidio» risulterebbe troppo blando.>>>>.

Rosario Coluccia

28 giugno 2013


www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-it...nicidio-perch-parola






[Modificato da Versolibero 06/11/2014 16:26]


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"Le parole sono 'contenitori' troppo angusti per le mie emozioni e quando, leggendo, le sento 'soffrire'
o mi segnalano delle 'sofferenze' corro a liberarle senza pensarci due volte per provarne di più adatti".
(citazione di EEFF)
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11/11/2014 12:20
 
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Questo post, tempo permettendo, sarà corredato di altri articoli inerenti all'oggetto;
per il momento lascio il link della sezione ove ho postato una prosa poetica dedicata
ad Andreea Cristina Zamfir:
sono righe dalle viscere, come succede quando, alla degenerazione dell'essere umano
che sfocia in sadismo e sopraffazione, non si riesce a trovare una spiegazione né una
giustificazione, specialmente quando le sevizie hanno comportato la morte di una donna
di soli 26 anni.


versinvena.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10971...






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"Le parole sono 'contenitori' troppo angusti per le mie emozioni e quando, leggendo, le sento 'soffrire'
o mi segnalano delle 'sofferenze' corro a liberarle senza pensarci due volte per provarne di più adatti".
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12/11/2014 11:49
 
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intermezzo musicale ascoltando le parole:

[Modificato da Versolibero 12/11/2014 11:53]


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"Le parole sono 'contenitori' troppo angusti per le mie emozioni e quando, leggendo, le sento 'soffrire'
o mi segnalano delle 'sofferenze' corro a liberarle senza pensarci due volte per provarne di più adatti".
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25/11/2014 23:38
 
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Giornata contro la violenza sulle donne.


Penso che tutti dobbiamo riflettere su questi dati sempre più allarmanti e sui motivi per cui oggi, dopo tante passate lotte per la parità e il rispetto tra Uomo e Donna, ancora la violenza di genere continua a perpetrarsi.
L'amore non è gelosia morbosa, non è possesso, non è subordinazione; l'amore è fonte di gioia, di crescita e di consapevolezza per entrambi.
Le donne devono essere le prime a capire che non ci può essere amore quando non c'è rispetto; non c'è nessun buon motivo per giustificare la violenza e la sopraffazione da parte di nessuno, tanto meno dal proprio partner.


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<<Femminicidio, il 2013 anno nero: ogni due giorni uccisa una donna
Lo rivela l'Eures nel secondo rapporto sul fenomeno in Italia: rispetto al 2012 gli omicidi di donne sono aumentati del 14%

13:11 - Il 2013 è stato un anno nero per i femminicidi, con 179 donne uccise, in pratica una vittima ogni due giorni. Rispetto alle 157 del 2012, le donne ammazzate sono aumentate del 14%. A rilevarlo è l'Eures, istituto di ricerche economiche e socilai, nel secondo rapporto sul femminicidio in Italia, che elenca le statistiche degli omicidi volontari in cui le vittime sono donne.
Femminicidio, il 2013 anno nero: ogni due giorni uccisa una donna

Aumentano i femminicidi in ambito familiare - Aumentano quelli in ambito familiare, +16,2%, passando da 105 a 122, così come pure nei contesti di prossimità, rapporti di vicinato, amicizia o lavoro, da 14 a 22. Rientrano nel computo anche le donne uccise dalla criminalità, 28 lo scorso anno: in particolare si tratta di omicidi a seguito di rapina, dei quali sono vittima soprattutto donne anziane.

Anche nel 2013, in 7 casi su 10 (68,2%, pari a 122 in valori assoluti) i femminicidi si sono consumati all'interno del contesto familiare o affettivo, in linea con il dato relativo al periodo 2000-2013 (70,5%).

Mai una percentuale così alta di donne uccise - Con questi numeri, il 2013 ha la più elevata percentuale di donne tra le vittime di omicidio mai registrata in Italia, pari al 35,7% dei morti ammazzati (179 sui 502), "consolidando - sottolinea il dossier - un processo di femminilizzazione nella vittimologia dell'omicidio particolarmente accelerato negli ultimi 25 anni, considerando che le donne rappresentavano nel 1990 appena l'11,1% delle vittime totali".

Il Sud diventa l'area a più alto rischio - Per 10 anni quasi la metà dei femminicidi è avvenuto al Nord, dal 2013 c'è invece stata un'inversione di tendenza sotto il profilo territoriale, divenendo il Sud l'area a più alto rischio con 75 vittime ed una crescita del 27,1% sull'anno precedente, anche a causa del decremento registrato nelle regioni del Nord (-21% e 60 vittime). Raddoppiate le vittime al Centro Italia, dalle 22 nel 2012 a 44.

Oltre il 66% delle vittime di femminicidio morta per mano del partner o dell'ex - Ottantuno donne, il 66,4% delle vittime dei femminicidi in ambito familiare, hanno trovato la morte per mano del coniuge, del partner o dell'ex partner; la maggior parte per mano del marito o convivente (55, pari al 45,1%), cui seguono gli ex coniugi/ex partner (18 vittime, pari al 14,8%) ed i partner non conviventi (8 vittime, pari al 6,6%).

Crescono anche i matricidi - Lo scorso anno si è avuto, "anche per effetto del perdurare della crisi", un forte aumento dei matricidi, spesso compiuti per ragioni di denaro o per una esasperazione dei rapporti derivanti da convivenze imposte dalla necessità: sono infatti 23 le madri uccise nell'ultimo anno, pari al 18,9% dei femminicidi familiari, a fronte del 15,2% rilevato nel 2012 e del 12,7% censito nell'intero periodo 2000-2013 (215 matricidi). Ad uccidere sono nel 91,7% dei casi i figli maschi e nell'8,3% le figlie femmine.

Una donna su tre uccisa a mani nude - A "mani nude", per le percosse, strangolamento o soffocamento: così nel 2013 è morta ammazzata una donna su tre. Se le armi da fuoco si confermano come strumento principale nei casi di femminicidio (45,1% dei casi, seguite, con il 25,1%, dalle armi da taglio), la gerarchia degli strumenti si va modificando: le "mani nude" sono il mezzo più ricorrente, 51 vittime, pari al 28,5% dei casi; in particolare le percosse hanno riguardato il 5,6% dei casi, lo strangolamento il 10,6% e il soffocamento per il 12,3%. Di poco inferiore la percentuale dei femminicidi con armi da fuoco (49, pari al 27,4% del totale) e con armi da taglio (45 vittime, pari al 25,1%).

Collegato alla modalità di esecuzione è il movente. Quello "passionale o del possesso" continua ad essere il più frequente (504 casi tra il 2000 e il 2013, il 31,7% del totale): "Generalmente - dice il dossier - è la reazione dell'uomo alla decisione della donna di interrompere/chiudere un legame, più o meno formalizzato, o comunque di non volerlo ricostruire". Il secondo gruppo riguarda la sfera del "conflitto quotidiano", della litigiosità anche banale, della gestione della casa, ed è alla base del 20,8% dei femminicidi familiari censiti (331 in valori assoluti). A questi possono essere aggiunti gli omicidi scaturiti da questioni di interesse o denaro, 19 nel 2013, il 16%, e si tratta prevalentemente di matricidi.


(fonte web: www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/femminicidio-il-2013-anno-nero-ogni-due-giorni-uccisa-una-donna_208018120140... )



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PERUGIA -
Scrivere i nomi di tutte le donne uccise nel mondo.
(di LEONARDO MALA'):


www.repubblica.it/cronaca/2014/11/25/news/installazione_perugia-10...




[Modificato da Versolibero 25/11/2014 23:41]


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"Le parole sono 'contenitori' troppo angusti per le mie emozioni e quando, leggendo, le sento 'soffrire'
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26/11/2014 00:03
 
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Segregata in casa per 15 anni

"Il marito la costringeva a non lavorare con la scusa della gelosia, poi le negava il denaro: "Non ne hai bisogno. mangi e dormi qui". Poi la ribellione per i figli"
(di Ilaria Bonuccelli)
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FIRENZE. “Gli dovevo chiedere i soldi per tutto. Anche per lo shampoo. Io non avevo nulla. Non gestivo nulla. Non voleva che lavorassi. Aveva sempre una scusa diversa. La spesa la faceva lui. Comprava solo le cose che piacevano a lui e io dovevo cucinarle. Bene. Se lo facevo arrabbiare era capace di lasciarmi senza nulla anche per due o tre mesi. Solo il cibo per sopravvivere, per me e i miei figli".

"All’inizio i bambini erano piccoli, ma poi sono cresciuti e hanno iniziato a comprendere che cosa stava succedendo. Hanno cominciato a domandare “Perché tratti la mamma così?”.Mi sono preoccupata perché alle loro domande ha cominciato a dare risposte pericolose: “La picchio perché è colpa sua: non ha fatto questa cosa”. Oppure: “La picchio perché mi ha dato questa risposta e non doveva”. Allora ho trovato la forza di ribellarmi. Non volevo che mio figlio crescesse uguale a suo padre e che mia figlia crescesse con un padre violento”. Un padre – denuncia Sole – che è stato capace “una volta di tenermi per tre mesi senza soldi. Tanto – mi ha detto dopo una lite – mangi e dormi qui. Non hai bisogno di altro. A che cosa ti serve il denaro?”. A essere libera, ad esempio. Oggi Sole lo capisce. Quando era sposata la situazione era più complicata".

"L’ultima volta che mi ha picchiata davanti ai miei figli, però – riprende a raccontare – ho avuto il coraggio di chiamare i carabinieri. Lui non mi credeva capace. E neppure io mi credevo capace di farlo. Ma non volevo più che i bambini assistessero a quelle scene. I carabinieri sono venuti, lo hanno denunciato, io sono andata in ospedale”. Ma l’incubo non è finito. Il suggerimento è che Sole deve tornare a casa con i figli per non essere accusata di “abbandono del tetto coniugale”. Iniziano 6 mesi di prigionia vera e propria. “Ero segregata in casa mia. Ero terrorizzata ma non volevo perdere i miei figli. Allora la mia giornata si svolgeva in questo modo: io avevo iniziato a stirare in casa e a fare alcune riparazioni. Lui non mi dava soldi, ma pagava le bollette della casa e faceva la spesa. Io preparavo da mangiare per tutti. Quando lui rientrava alle 17,30 dal lavoro, mi chiudevo a chiave nella camera dei miei figli e uscivo la mattina alle 7,30 quando lui usciva di nuovo. E’ andata avanti così fino a quando non è arrivato l’ordine del tribunale che gli ha imposto di andare via di casa”. Ma anche dopo il cammino per Sole è stato in salita. “Sono stata assalita dai dubbi e dai sensi di colpa. Per molto tempo mi sono chiesta se effettivamente mio marito avesse avuto ragione a dirmi che ero io a sbagliare tutto. E se avessi fatto bene a lasciare i miei figli senza un padre con cui crescere. Per fortuna mi sono rivolta ad Artemisia, un’associazione che si prende cura di donne in difficoltà, donne maltrattate. L’ho fatto due anni fa in un momento in cui non avevo nessuno con cui parlare. E loro mi hanno detto quello che avevo bisogno di sentirmi dire: che non era colpa mia. Di nulla di tutto quello che era capitato”.


(Fonte web: Il Tirreno
Qui l'articolo completo: iltirreno.gelocal.it/regione/toscana/2014/11/25/news/sole-picchiata-e-segregata-in-casa-per-15-anni-1.... )


O===================O=================O=================O



www.unicef.it/doc/5676/mutilazioni-genitali-femminili-130-milioni-di-vit...


www.unicef.it/doc/5918/giornata-contro-violenza-sulle-donne-...


[Modificato da Versolibero 26/11/2014 00:04]


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