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due poesie di francesco terzago

Ultimo Aggiornamento: 25/10/2011 22:23
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03/10/2011 17:24
 
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due poesie di francesco terzago, classe '86.
a me piace molto. in attesa di vostri riscontri.




[Dormono nelle ceneri]
Dormono nelle ceneri, come delle cose
esauste, si lasciano a questo sonno
per lasciarsi almeno a qualcosa. C’è stato,
non dico che non ci sia stato
un amplesso,
venuto da una bottiglia di vodka
venuta a sua volta dall’armadietto
di latta di un padre. Io me ne sto andando
la città è lontana, via, lontano, a piedi,
fra poco saranno le fondamenta
della Montagna. Gli aghi di pino,
il fermentare degli aghi di pino,
sgretolati che sprofondano in questi
gialli recessi della carne.
Sono le carni di due che si conoscono
abbastanza bene, senza che si conoscano
per nome. La resina che è caduta,
perché è caduta, lo ha fatto sui vestiti
lasciati nell’ombra, lo ha fatto
sul seno e sul naso, sui loro corpi.
I pini marittimi sono stati decimati
dal punteruolo rosso.
Loro7 due riposano ora, calmamente,
e si abbracciano. A loro basta questo,
un riposo che non sia altro
che semplice riposo.
Questo silenzio che sentite, è il silenzio
che il settembre dispiega
a una certa ora – prima
che sia troppo buio per vederlo: così
tutto si mischia in una tenda verdognola.
È il silenzio messo dal vento
che riempie i solchi di polvere
dei cantieri. Del vento che,
risalito dal mare, ora piega le lunghe
braccia da cerusico su queste ultime
pezze del vecchio pianeta. I tubi
di scappamento soffiano
nel tubo di calcestruzzo
che trapassa la collina.
La chiazza dei clacson, un picchio nero,
gli alberi coperti di secco muschio nero.
Il declivio soleggiato è un materasso
di linfa. Un frigorifero rugginoso,
un dolmen rugginoso che un bimbo
grassoccio ha scelto come tana; vecchi
fumetti che sanno di muffa, una bambola
rubata alla sua sorellina:
per sapere se lei, se anche lei,
è capace di piangere. Un panno
d’erba sudata, la campata di cemento
del viadotto per nascondere delle sdraio.
E un dondolo di ferro. Quattro vecchi
forforosi prendono con le mani artritiche
le ultime anguille stordite dall’ipossia.
Il gambero killer si sposta da una
disseccata sorgiva all’altra, nella notte.
Ora è notte, e il gambero killer si sposta
da una disseccata sorgiva all’altra
come il giovane fantasma di questo nuovo
pianeta. Ed è dentro a quest’orizzonte
che si dipanano le fibre stesse
di questo nuovo pianeta: pianeta d’asfalto,
di acciaio, di bibite zuccherate; il deposito
della ferrovia – un gruppo di ragazzini
sbozza un, chi siamo,
ognuno di questi ragazzini
si è scelto un nome – per scrivere
un nome –. Nomi scritti sul metallo
e sul vetro verde dei vagoni. Nomi scritti
sul metallo e sul vetro verde. Scritti
per invocare. Ognuno di loro quest’oggi
invoca se stesso.
Chi siamo dicono chi siamo.
Il rosso dei binari
lavato via dalla pioggia,
l’aria elettrica – il temporale abbatte
ogni spettro. Si disperde l’afa
notturna, la luce arancione dei lampioni
allunga sullo sterrato le ombre affilate
dei ragazzini. I ragazzini ora
stanno scappando. Io non cerco riparo
dall’acqua. Ragazzini che ridono,
che urlano, che si chiamano
con quei nomi che si sono scelti.
Due corpi gialli, due corpi gialli
cadono nel fango,
ridono nel fango, la loro macchina
è nascosta oltre l’ultima siepe di rusco,
non è detto, dico, non è detto
che staranno meglio allontanandosi,
qui c’è caldo e dice amore, lei,
ma sento più freddo, di prima,
sento più freddo di prima,
abbracciami ancora.















[La diga delle nuvole]
La diga delle nuvole. La diga
d’ottone delle nuvole che argina
l’azzurro. Una leggerissima
pesantezza. Stare mezzo-distesi
tra gli scheletri dei sicomori e guardare
la diga d’ottone delle nuvole
che si ripiega su se stessa, su di noi.
Mezzo-distesi tra le travature,
le quattro travature in avanzo,
dell’ultimo cementificio. Qui
ci sono gli esseri minuscoli
dell’humus, gli esseri minuscoli
dell’humus che fanno una danza
macabra di sistri. Qui scende
l’orlo di pietra, l’orlo di pietra
della gonna della Montagna.
Ed è proprio qui, proprio qui
che ho preso un po’ di sonno
al serbatoio dei giorni. Nella ghiaia
di un brolo, tra il rosmarino e la melissa,
sotto al rotto acquedotto romano.
Svegliarsi tra gli odori e le piante vive,
di una vita che non è più vita. Svegliarsi
per le ultime macchine – che tornano,
gente che ritorna a casa.
Esiste una casa – se non in noi stessi?
E richiudere gli occhi avendo presente
che quest’oggi la casa è solo un bordo,
tra la Montagna. Tra la Montagna
e tutto il resto.
Un nuovo mattino. È arrivato
un nuovo mattino. È spiovuto del tutto,
la costola fluttuante fa male,
tossire sangue – tossire nero, lo spettro
dell’unicorno. Odore di spore,
di finferli, i polmoni pieni
di spore. Prendo da terra
le mie quattro cose bagnate:
quattro sacche che contengono
cose stanche che non conosco, più,
che non mi conoscono, più.
Devo salire ancora. Salire,
tra i vuoti casolari, tra le affissioni
di pubblicità.
Dove i licheni disegnano
lo spettro di una distorta Pangea.
Sotto: qualche prodotto
degli ’80 uscito dal mercato,
i primi eroici video-games,
eroiche merendine al rum
per bambini. Sopra:
lo spettro di una distorta Pangea.
Salire tra le scritte [Vendesi]
quasi illeggibili, quasi illeggibili;
edifici-scatola – non più coppi
ma fronde, fronde di rame, nastri
molli di rame. Fare un passo indietro,
per ogni passo, per ogni passo
fatto andando avanti. La pioggia
ora è distante, nella pianura.
La pioggia è un pettine di peltro:
nei gesti di questo pettine di peltro
misurano le aritmie del Tempo
solo gli ultimi uomini. Gli uomini
che vivono di un’autentica vecchiezza,
che hanno corpo e membra
di questa terra dura, di queste
dure colline. Salire ancora,
Qualche fienile, casa di pietra
acquattate nel verde spaventato:
gli infissi di nocciolo trasudano
giorni e giorni e notti passate.
Niente più vetri alle finestre.
Niente di niente. Gli ultimi uomini,
gli uomini che vivono
di un’autentica vecchiezza
raccontano il grande silenzio
che si è disteso su tutto,
su tutto. A pancia in giù.
Niente torri di semafori, né bisarche
(per bisarche), né cani pieni di vermi,
vermi dai musi dei cani. Solo
lamiere rosse e cemento,
eroso cemento armato. L’eroso
cemento armato mette spiedi
nello stomaco del mattino
– la terra ingoia il sangue,
non serve segatura gialla
non serve chiamare il macellaio
col gancio e i coltelli d’argento.
Questo è l’abbandono,
un abbandono verde.
L’abbandono dove le femmine
della Lampyris noctiluca
mettono la loro bioluminescenza,
l’abbandono dove la bioluminescenza
è dappertutto. Niente lampioni gialli,
niente coltivazioni intensive
di soia, molti gasteropodi polmonati
per sfamare la bioluminescenza.
Ma questo abbandono esiste
e persiste solo in questo posto qui,
tenetevelo bene stretto. Io vi racconto
l’abbandono. Fuori da qui, a ogni città
dei vivi sta una Città dei Morti,
e questo mondo è una sottile distesa
di uffici, di capannoni, di server-farm,
diodi, led azzurri. Satelliti spilli bianchi
nella notte. Di detersivo,
di silicone viola, dildo di porcellana.
Di formalina. Di vasellina. Città formicaio,
regine che danno figli. Figli
felici, poverini, di affamare
altri figli. Uomini-operai. Una distesa sottile
fino all’orizzonte fitto di antenne. Fino
alla Montagna. Fino alla Montagna
che aspetta e fuma, e fuma il narghilè.
Il pro-fumo discende
nel catino dell’unica Città dei Morti
la preghiera semi-visibile del divino
del divino che se ne è andato
quasi del tutto.


Casa mia è posta ai piedi di monti verdi./Mi piace salire sopra quei monti verdi;/Ma sui monti verdi non ci posso salire:/Come ci salgo mi viene la malinconia.
Hen Xun
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