Temo l’imperfezione, o meglio, il giudizio dell’imperfezione che so, che riconosco.
Allo stesso tempo mi faccio ricerca e poi abbandono.
Se le parole inondano le vene, se le foglie mulinellano nel ventre, se le mie mani incapaci non raccolgono al volo il seme che permea l’aria tutta e resto equidistante dall’oblio e dalla conoscenza dell’assoluto, non ho speranza, non ho salvezza. Scantono dalla mediana, la bisettrice mi seca e la temo, come un mangiatore di spade… come si sentirà lui quando la lama scorre l’esofago?
E come si sentirà Gulliver che tra i pigmei del pensiero rigetta all’interno di se stesso filosofie troppo evolute per essere comprese? Certamente si sentirono così Galileo o Einstein, ma per lui è diverso.
Gulliver ha scelto di abbandonare le catene, cancellarne i segni sul collo e farsi amare, amando.
Lo decise quando i suoi bruti compagni, che a modo loro l’avevano accudito con un pasto caldo al giorno e forse una cuccia di cartone, scodinzolando lo fecero salire sulla loro 4x4, una panda superstite dalla guerra del consumismo sfrenato, rosso bordeaux, come si conviene ai modelli più eleganti. E lui si sentì un ricco affarista sulla sua limousine e già pensava ad un viaggio di piacere, seduto in fondo, separato dall’autista da ben otto file di sedili. Lo champagne lo avrebbe fatto assopire ma pensò che avrebbe gradito mille volte una compagnia molto sexy, quella di Amanda, magari, cui versare quel liquido d’oro. L’avrebbe fatta inebriare, lasciandosi trasportare dal suo profumo canino, così intenso da risvegliare le invidie dei plebei, lì fuori.
Dicevo quindi, Gulliver era saltato nel bagagliaio tutto felice e cominciò a sognare quelle storie lasciandosi massaggiare la coda dalle vibrazioni del motore per un tempo indefinito. Quando la macchina si spense e quello che lui aveva creduto un suo amico da perfetto maggiordomo aprì il portellone posteriore, balzò giù con eleganza prendendo un bel respiro profondo e scodinzolò a lungo, saltellando intorno alle sue gambe, riconoscente del premio. Osservava il panorama: una distesa verde pareva non avere confini e l’aria tersa gli lavava il muso.
“Quanto ti amo!” abbaiò guardando il padrone, che però aveva un’aria cupa e non lo ascoltava. Non si accorse di questo dettaglio, troppo affascinato com’era dal nuovo posto. Gli strattonò la giacca invitandolo al consueto gioco e scappò lontano facendosi accarezzare dall’erba alta, inalando gli ultimi resti d’estate, corse in circolo, ritornò indietro per invogliare l’amico a seguirlo, poi scattò di nuovo in avanti. Non comprese bene quello che accadeva, a dire il vero non ci pensò proprio, gli pareva solo una festa, fino a quando il farabutto non risalì in macchina e mise in moto senza aspettarlo. “Hey, ma dove vai?! Hai dimenticato che vengo con te?
Hey…”
Quando Gulliver lo vide, era ormai troppo lontano per raggiungerlo e, pur esibendosi in uno dei suo migliori slanci, pur correndo come un diavolo, vide solo una freccia insanguinata schizzare lontano, sempre di più, perdendosi infine tra gli alberi all’orizzonte. Allora, senza darsi per vinto, metodico come un segugio, si mise in viaggio sulla scia dei gas di scarico, ma dopo qualche chilometro il suo fiuto cominciò a vacillare fino a perdere ogni possibile traccia, lasciandolo sperso, in un luogo che non conosceva. Per il nostro temerario a quattro zampe furono giorni complicati quelli a seguire, non era più un cucciolo e aveva diversi acciacchi, talvolta gli si screpolava il naso fino a sanguinare, spesso perdeva le forze e giorno dopo giorno dimagriva, perché aveva difficoltà a recuperare il suo pasto. Almeno uno, quello strettamente necessario alla sopravvivenza. Ma anche a causa di un brutto male, un male che l’uomo ha paura e teme perfino di contrastare. Per questa malattia gli umani hanno l’obbligo di contattare strani personaggi, che prescrivono le peggiori torture: pillole, iniezioni e costringono i cani a restare in casa per parecchio tempo. Quando accade tutti hanno lo schifo di toccarli, a volte un vero e proprio terrore appare fulmineo negli occhi. Era accaduto già ad altri suoi simili, nei casi più gravi, che venissero prelevati da medici in camici bianchi e portati in qualche posto, da cui non li vide mai più tornare. Era terrorizzato, perché aveva sentito il suo padrone parlare di ciò, qualche giorno prima, ma era anche assolutamente certo che non lo avrebbe consegnato ai nemici, lo aveva creduto con ogni cellula del suo corpo. Capì che non ce l’avrebbe fatta a ritrovarlo, comprese anche che molto probabilmente era lui a non avere più voglia di accudirlo, o forse gli aveva lasciato la chance di scappare, per non subire le torture. Tutto questo, comunque, dovette rincrescergli molto, perché il suo sguardo divenne triste, come se poi non avesse saputo, quello sciocco d’un uomo, che un’amicizia così assoluta e incondizionata ben valeva un pasto e qualche carezza, di tanto in tanto, proprio come per lui, il sorriso del suo padrone era valso una catena di 10 metri e qualche bastonata, se le sue parole, talvolta ululate per imporsi, non venivano puntualmente comprese, che sarebbe stato disposto a qualche puntura, se fosse servito a rassicurarlo.
Gulliver, per la sua natura generosa, non credette mai che la verità potesse essere ben altra.
Ormai senza forze, vagolando tra un umano scemo ed un altro violento –usava spesso accomunare le due specie in un’unica grande casta di
inetti- dovette ricredersi su molte cose e apprenderne tante altre tra le quali che quando uno della casta ti viene incontro è meglio darsela a gambe. Così era sfuggito a diversi bastoni e a molti musi piatti che lo avrebbero incastrato, nascondendo dietro quell’aria indifesa tutta la loro cattiveria. Ormai aveva perso ogni fiducia nel genere umano, era stanco e sconfortato e gli rimase un ultimo desiderio: estinguere lentamente la sua favella in quel paradiso verde scoperto giorni addietro, tra i ricordi che invece avrebbe potuto rimuovere. Fu così che si incamminò verso il suo ultimo rifugio.
Avrebbe dovuto intercettare prima la cattiveria del genere umano, lui avrebbe potuto, perché il suo olfatto era assai fino, ma un cane nasce per generare amore, è scritto nelle stelle e mai e poi mai si può contravvenire al Disegno Canino. È un compito, una missione che non portare a termine vale il disonore. Gli si illuminò, allora, la mente mentre era accucciato in un giaciglio di foglie, infreddolito com’era, in una notte senza luna. Aveva la febbre alta, probabilmente le allucinazioni, ma continuava a non darsi pace.
Sì, un cane d’onore subisce anche le peggiori umiliazioni per assolvere al proprio compito e lui –gli fosse costato anche l’ultimo osso- l’avrebbe fatto! Questi pensieri lo fecero addormentare finalmente quieto e risoluto, in un sonno profondo e senza sogni.
Ai primi bagliori, quando nelle campagne s’ode solo lo scricchiolio dei rami secchi e la vibrazione dei passeri che sbattono le ali, proprio nel momento più splendido del giorno in cui il cielo diventa una tela strisciata dal tenue pennello dell’alba e i colori si fondono, le palpebre incollate di Gulliver cominciarono lentamente a sollevarsi, penetrate da fruscii d’aria morbida. Era una sensazione di pace quella che lo invadeva, perché aveva ritrovato l’obiettivo e, pur se allo stremo delle forze, lo avrebbe raggiunto. Si sollevò sulle quattro zampe macilente, con difficoltà – bisogna ammetterlo- e sporse il suo grosso tartufo verso l’alto, per percepire la distanza tra lui e il primo insediamento umano. Il sapore acre della pelle dell’uomo che lavora la terra, il profumo fumoso dei forni, mentre lievitano il pane –
che ebbrezza! Ma fu il
chicchirichì di un gallo a fargli rizzare le orecchie e anche il pelo, perché almeno un piccolo gruppo di uomini non era lontano! Sorrise, al modo magico che sanno i cani, l’occhio divenne vispo e il corpo riprese nuovo vigore. Attraversò al galoppo i campi, facendo scappare le tortore, abbaiando felice ad ogni essere vivente, dagli insetti ai felini che soffiando si ritiravano tra l’erba alta. Lontano, una ragazzina con le trecce scure ed un jeans strappato sotto le scarpe, passeggiava ad occhi chiusi, ma sentendolo si voltò verso quel peloso in corsa. Rise, fischiò, lo richiamò come se lo conoscesse da sempre e lui le si gettò tra le braccia lasciandola cadere, le fece le feste, proprio come si fa ad un vecchio amico.
Cani e uomini sono perfetti per stare insieme, cercano la stessa cosa. Così tornò a pensarla Gulliver, dimentico dei maltrattamenti subiti, inebriato dalla gioia di avere qualcuno da amare, finalmente. E ne trovò molti, di umani da amare, a suo modo.
Gulliver infatti non ha una casa vera e propria, ma una cuccia in cui non entra, forse è claustrofobico, o forse preferisce dormire sotto le stelle per ricordarne il disegno ogni notte. Non ha un collare, ma scorazza libero nei dintorni e tutti gli danno da mangiare, perché piano piano ha vinto la diffidenza di questi bipedi implumi e senz’ali. È riuscito a farsi accarezzare e la vedi la gioia negli occhi, quel sorriso tutto suo.
Chissà se teme l’imperfezione del suo pelo duro e i giudizi, e per questo alza poco la coda, quando scodinzola. Lo fa tra le zampe, timido, ma sorride.
Chissà cosa pensa quando si fa ingannare e, mentre divora il pappone condito con strane essenze medicinali dal dubbio gusto, un uomo gli infilza la pelle con un ago. Se è furbo,
e lo è, sa che è per il suo bene. È l’unico motivo per cui glielo lascia fare.
Chissà come si sente, quando poi l’altro rientra in casa, lasciandolo lì… a volte senza carezze, ma non per cattiveria. Penserà che un giorno o l’altro lo inviterà a salire per una ciotola di latte e nel frattempo aspetta, lui sotto le stelle e senza catena, aspetta che anelli di una catena più forte vengano forgiati. Una catena invisibile, fatta di sguardi. Perché Gulliver è saggio e sa che esiste una forza più grande, più forte della rabbia, più forte del dolore e della stupidità. E poi, è un cane d’onore e ha il suo destino da compiere.