00 07/01/2011 01:02
Si può dire che in scrittura ho un ossessione, una sola: l'eliminazione dell'io dal testo. Nel 900' questo è stato tentato in vari modi: abolendo l'suo del pronome, facendo delle cose il soggetto che descrive il mondo, inserendo nella lirica parti, ritagli, montaggi di conversazioni, pubblicità, ecc altrui per mettere in crisi l'idea dio un io che organizza e orienta il mondo... io ho scelto un'altra strada: l'io come personaggio lirico rimane, ma il mondo in cui si muove è uno spazio metafisico (anche quando ha i tratti della realtà quotidiana) a lui ignoto, in cui si muove secondo leggi che non conosce, tentando un dialogo con entità che non rispondono (Dio) o che non comprendono, perché vivono su di un altro piano (la donna). In questo spazio ignoto l'unica condizione che l'io sperimenta è quella della tragedia, dello scacco metafisico, della sconfitta che non può essere riassorbita in alcun polo positivo (fede, amore, ecc) perché le leggi che governano queso mondo non sono umane, e non sono pensate per l'umano. Da qui si potrebbe dedurre logicamente che ho scarsa fiducia nelle possibilità della parola di afferrare il reale e comunicarlo all'altro, invece non è così: paradossalmente la parola rimane l'ultima possibilità di creare un ponte, poiché l'uomo immerso nell'incomprensibile ha come ultima possibilità la condivisione della sua condizione con l'altro. E' un paradosso che la cultura giapponese ha eretto a civiltà: io due concetti cardine della tradizione del Levante sono l'on e il giri, ossia il rito e il dovere, creazioni culturali riconosciute come artificiali (non c'è alcun concetto di umanità né umanesimo nella cultura orientale) e che pure nella loro arbitrarietà creano quel legame solidale che se venisse meno lascerebbe ogni individuo immerso nel vuoto dell'esistenza.




"Il poeta è puro acciaio, duro come una selce" Novalis

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