Cara,
la parola è una fede, un cielo rannuvolato, noi siamo come il vento (concedimi l'inciso a rasoio), lo sgombriamo dal grigio, lo ripuliamo, con l'amore dei bimbi che lucidano il balocco che il papà gli ha regalato.
Sai, ieri ho visto una ragazzina seduta ai parchetti, giocava col taglierino, lo guardava come una stilo, un compagno d'infanzia, lo muoveva con la sicurezza di un arto, e non tremava quando ha inciso sul legno “t amo, sei tt, t kiedo, nn mi abbandonare”, credeva che lui sarebbe passato, e una ferita gli si sarebbe aperta sulle labbra, quel rimorso -che come un ragno- ti paralizza, ti costringe a fermarti e chiederti se ha ancora un senso mentire, fingere di non sapere, che le parole hanno una consistenza, un peso, sono come biglie -o meteore- lanciate contro l'immobilità delle cose.
A lei -e a nessun altro- ho giurato fedeltà, la dedizione di uno sposo, alla sua lingua semplice, contratta, che nonostante tutto chiede ascolto, e se ne frega del buio, della pioggia, della mano che passerà per cancellare, perché chi ha fede non si vergogna di balbettare, di lanciare un urlo quando è solo: sa' che qualcuno raccoglierà la sua parola, ne farà manifesto o preghiera.
Adesso starai ridendo, ritenendomi un sognatore, anni d'accademia e libri e libri impilati come una scala verso il cielo, per finire seduto su una panchina, a lottare contro questo trinciato che cade tipo foglia sulla tastiera, ma io dico: ho ancora la bontà feroce di un adolescente. Dico: se la parola è morta, perché il corpo ancora brucia, quando la sente?
"Il poeta è puro acciaio, duro come una selce" Novalis
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