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Roberta Dapunt

Ultimo Aggiornamento: 11/02/2010 00:05
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08/02/2010 21:43
 
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Roberta Dapunt è nata nel 1970 e vive in Alta Val Badia . I suoi versi sono caratterizzati da inquietudine e armonia insieme, da un percorso religioso tormentato e puro. Le immagini che sceglie sono di morte e di naturalità e il suo sguardo segue le stagioni e gli animali nel silenzio delle sue montagne e dell'anima. Per il critico Giovanni Tesio si tratta di una voce folgorante e di spontanea innocenza che approda alla «semplicità » (c'è anche un testo rivolto alla madre, che s'intitola Poesia semplice) attraverso "una dura macerazione, un vero e proprio percorso di spoliazione."

Ha pubblicato le raccolte di poesia OscuraMente (1993), la carezzata mela (1999). Ha realizzato assieme al Maestro Paolo Vergari una registrazione su CD (2001), intitolata del perdono - poesia e musica per pianoforte. Nel 2008 è uscita la raccolta di poesie la terra più del paradiso (Einaudi). Sue opere poetiche si trovano in varie riviste letterarie, tra le quali: "Arunda", "Tras", "Ladinia", "Entschluss", "Filadressa", "Sturzflüge" e i "Quaderni" del Fondo Moravia. Scrive in italiano e ladino.


Te chësc lüch, a pascentada resta nosc dagnì.
Mostra inant cun lecaćiadin, n vare indolater
rovarunse inće nos pro florì,
döta tera nes fajarà curtina y spizorada nöia.
Jënt ladina, tan pice inom
rodosa i ödli y ćiara lunć,
mënder tlap inće nos adinfit söl monn.

(In questo maso, a pasturare rimane il nostro avvenire. / Mostra a dito innanzi, un passo dopo l’altro / giungeremo anche noi a fioritura, / la terra tutta ci farà cortina e gettata nuova. / Gente ladina, così piccolo il nome / volge gli occhi e guarda lontano, / gregge minore anche noi in affittanza sul mondo.)




*

inverno

Arrivo a lumi spenti e quindi al buio di ogni sera
me ne entro nel silenzio.
Il messale che conosco è un ricovero di vacche,
una greppia da riempire, il suono umile del fieno
in bocca a chi sa ruminare.

Ho le mani profumate dei cafoni, me le tengo
e spargo paglia come il sangue per un ideale.
Il mio cervello è fine e separato
come gli occhi tondi delle bestie
che non vedono lontano.

Piove umido il cielo in una stalla,
piovono pure i pensieri e le voglie insoddisfatte.
Poi finiscono e chiudo l’uscio e me ne vado
e lascio il buio e un altro giorno a terminare.

*

la canzone di Herta

I piedi di Herta hanno il verso dell’erba zitta di novembre,
camminano separati, rivolti all’urgenza di andare e tornare.
Pestano cauti in scarpe di umile retta e il veloce passo
porta a casa il suo corpo solo e la spesa,
alla povera Helga, a un ostinato padre.
E lei sorride e il suo sorriso
non spalanca mai la bocca, stringe gli occhi
fa sentire note di una voce che di dentro tace.

Herta dai mille chilometri e un solo sentiero,
angelo contento dai pochi pensieri, non ha le ali
ma si muove senza pari, posa in terra gioia e dispacere
in misura uguale e leggero peso,
ché in paese s’affretta e non sosta se non per il pane
eppure lo fora, trapassa, lo buca e perfora,
attraversa il suo cuore
e nessuno s’accorge e nessuno la vede.

*

le intime riflessioni

V

Sappi che mentre scrivo non ho ossa né carne,
che ciò che di me rimane
è simile allo spazio buio della stalla,
e dentro smarrisco il tempo e dentro io ritrovo un posto
in cui stare. In cui meravigliarmi.

E nel buio della stalla divento domestica e lavoro.
Urna felice è la greppia colma del fieno raccolto.
Scrigno fedele di valori sempre uguali.
E poi la poesia, quanto vorrei tracciarla di più.

*

l’altra virtù

Non fare rumore, non dire niente,
riponi l’infelice strumento nel fodero, come un boia la scure.
Ci facciano eco i versi, in questa sera il caldo marzo,
la morte, anch’essa sosta a guardare
due pupille di vitello sommerse in riservato chiarore
e il corpo ancora caldo di una sicura madre.
Vince sull’abitudine l’odore del sangue.
Sconfitti, eppure eredi anche di questo,
domani tu e io ritorneremo al mite foraggio.




L'ascolto




"un paio di orecchie hai scavato in me" ,
dice Davide.
C'e` poco cielo fuori,
tra poco nevicheranno i minuti
e saranno destinati al silenzio,
perche` e` inverno
ed esso e` tutto la sua voce.
Io lo ascoltero`
ma non cerchero` versi di approvazione.
La sedia sulla quale seggo
accusa di gia` la mia indolenza.





Giuseppe

albanese che ti alzi ogni giorno e ti separi
é tempo per una madre
e un bambino di nuovo
a scontrarsi con altri corpi
in questa terra che non vuole
chi senza origine non é più nessuno
Giuseppe di Galilea
che ora sei di ovunque
da dove si fugge - ancora ieri
ed é già oggi
a ficcar le mani nella terra dei tuoi padri
tra le foglie secche di alberi fucilati
questo nome ora é profugo nel mio giardino
e io pronta a serrar le porte
a te che chiedi il mio sorriso e un soldo
- come il mondo
ho violato l’anima e la tua esistenza -
questo é un attimo secolare
e chi é nessuno sono io
in questa casa a guardarti
fuori che ti allontani


il vestito di Angelina

Angelina corri a casa
c’é chi spara - e c’é chi cade -
corri corri - Angelina dal vestito
che ha le forme di chi nasce
- Angelina della vita -
dai mille volti che mi passano davanti
e altrettante disperazioni
- questo nome sono gli anni
religioni e guerre - ora come sempre -
niente cambia e troppo muore
madri e madri e Angelina
- che in Israele o in Palestina
il sentimento resta uguale -
donne gravide a far da cena
a gremire i popoli - e le preghiere
perché tornino i loro padri
Angelina corri a casa
corri corri - Angelina
delle nostre gravidanze -
quanto odio a seppellire
- e quanto pianto -
eppure oggi é recente sangue





Maria di Palazzolo Vercellese


Maria di Palazzolo Vercellese
che cammini con la fede in mano
e una gonna
che non ha ceduto le rose
a una rassegnata vedovanza
chiedi alla polvere di ascoltar poesia
e ti commuovi se l’ascolta
e mi confidi una sottile aspirazione
a evadere con un sorriso
estremamente semplice
- Maria di Palazzolo Vercellese -
ho ancorato il tempo a questa immagine
dalle poche case
e dalla poca gente
ha le vie interrotte
- quelle che portano al mondo -
eppure mi versa l’anima addosso
fino a brillare questo incontro
come il riso che ti circonda



Trio per Oboe, Fagotto e Pianoforte
Presto – Andante – Rondo



„Presto"

il gufo
è la qualità di ciò che é fermo
- cosa pensa
una fronte tondeggiante
schiva di onori
gli occhi frontali ora guardano il pubblico
questo aspetto risulta di un solo pezzo
come davanti a un grande mare
all’orizzonte un sottile beccuccio piegato
- é salpato il fagotto –

„Andante"

luminoso oboista
io chiudo gli occhi stupiti
il tuo costante sorriso
é un continuo gioire
questo corpo oscillante
insegue armonioso le note
dondolando le braccia
vi appare un legno dal suono alto
e soffiandoci dentro il cuore gonfio
é possibile sentire di più ?

„Rondo"

- ballo in tondo – amico mio
le tue dita sono uccelli
lo stormo é un turbine di suoni
qui s’interrompe il tempo
e si ripete un istante
fino a posarsi le mani
come una condannata morte
in dono alla bellezza
si alzano, appena poco
e poi ferme – il loro peso regale
é un abbandono al silenzio




***

Mai come ora mi fu necessario il silenzio
e il pianto a sconfinare i sensi,
le lacrime, spazi colmi di inconfondibile solitudine.
Come un quadro pende dal chiodo
esse pendono obbedienti al mio sguardo dissacrato,
perché non vedo che disseccarsi ogni senno
e qualsiasi ragione affamarsi di follia.
Povera la mente che difende terra infertile,
buona soltanto a ricordare come ridevo
e rimanevo contenta di me,
perché potevo ed era un facile guadagno,
in premio a ciò che ero, il mio sorriso.
Ora qualunque labbro urlerebbe di scontento,
non vi è parola, nessun verso che tenga.
Sto dormendo e piano muoio da lungo tempo
e gratuitamente scrivo e mi dico poeta,
urtandomi con i grandi che amo.
Unico riparo sarebbe forse finire il morire ?
Abbracciando finalmente la vita.
Perché solo è il corpo ad amare la terra più del paradiso,
nient'altro che la carne a mangiare il pane e bere il vino.
Io non ho motivi di mietitura,
perché dentro non mi cresce l'erba.
Io non ho causa di poesia,
che per essa mi marciscono la parole in bocca
prima ancora di averle raccolte.

penitenziale
Mi dolgo. Di non essere il grano di un consumato rosario
sostenere tra congiunte mani il ritmo calato di un' Ave Maria
ed infine avvertire per poco un sollievo dell'Amen depositario .


rosario a Dicembre


niente ali per il paradiso
né una vanga per l'inferno ci è concessa,
ma un rosario ed al confine dell'orazione
una Padre Ave e gloria a chi di noi altri
sarà il prossimo a morire



Credo
Credo nelle anime sante
nella loro indipendenza conquistata sui sensi di una preghiera.
Credo nel lamento di un uomo in agonia,
inaccessibile silenzio degli ultimi istanti di una vita.
Credo nel lavaggio del suo corpo fermo
nel suo vestito a festa e nell'incrocio delle mani,
testimoni di un battesimo confidato.
Credo nella gloria dei vinti.
Credo nelle loro carni piegate sotto le macerie,
i loro respiri cessati.
Credo nelle distese di orti trasformati,
dentro il loro recinto le ossa dei popoli ammazzati.
Credo nei miserabili che annegano alle porte d'Italia.
Credo in quelli che rimangono e il giorno dopo chiamiamo clandestini.
Credo nelle loro bambine vendute ai nostri piaceri,
nella loro tristezza che sorride vittima di un rossetto ingrato.
Credo negli angeli senza ali,
in quelli che a piedi nudi camminano dentro una fede.
Credo nel mondo,
quello fuori dalla vetrina in ginocchio a guardare dentro.
Credo nel colore delle pelli che indossa,
negli occhi neri dei figli che perde affamati.
Credo nella verità delle madri e del loro amore
Credo nella miseria e nell'umiltà di questi versi.
Credo nella bellezza
e qui conviene fermarmi.



e te lo dico con la vita

Ti aspetterò stesa col capo rivolta alla tua croce,
il mio viso chiuso stringerà il lieve sorriso
che non consentì soddisfazione alla preghiera.
E saranno tre giorni e passeranno tre notti
e catene di Rosari sazieranno l'aria,
amerò qualunque fiore mi verrà donato.
Ti aspetterò nelle muta morte,
la mia gente ti chiamerà per nome
e qualcuno veglierà sulle mie sparse parole.
E scriveranno : sospiravo il tuo regno
mi accontentai del mondo.




La mia Confessione fedele


Curo i prati come il pavimento della mia casa,
guardo l’erba come il tappeto sul quale
allignano i figli e un tempo contento.
Non vi è obbligo di appartenenza.
Ogni filo d’erba è una speranza,
il diritto per l’umiltà di un altro
che l’ha preceduto e che io ho falciato,
raccolto e scelto per necessità e dottrina.
Pulire i prati è levare loro i sassi e contarli,
come un atto di compassione
ad ogni riverenza che gli concedi.
È raccogliere terra sputata dal fondo e seminarla,
di nuovo, in segno di generosità verso essa.
È forse un lavoro ingrato e fermo al punto di partenzama
è anche la mia confessione fedele,
la coscienza che mi riconosco addosso,
di essere qui anche per questo.



Poesia triste



Voglio morire, sedere e morire seduta,
come la Lena, pregava e ad occhi chiusi moriva.
Ho da tempo il cuore malato,
si stanno cibando gli orridi pensieri del corpo intero.
Ferisce la malattia che non va detta,
che non è chiesta perché non sarà capita.
Solitudine dei giorni che passano come pause alle notti.
E di fronte ho le genti e i doni
di chi in visita così tanto viene a Ciaminades.

Ma voi chiamatemi solo con gesto di mano,
non pronunciate il mio nome.
Non cercate la donna, la moglie, non l’essere umano.
Io sono amante e chimera, muso di capra e coda di serpente,
grido di scherno e condanna, musa dell’arte, bocca di bronzo.
Non chiedete i miei versi, non la poesia, siate inerti.
Nei tanti quaderni io non sono parola,
sono il delirio di essa, null’altro! Tacete.


***


Ora che posso obbedire a me stessa,
affilo il desiderio di rifiutarmi.
Giacché è presenza inutile il mio nome
e come di periferia il mio corpo,
spoglio di ogni incanto e desiderio.


Io morirò fulminata a giugno,
prima della pioggia,alla raccolta degli ultimi fasci.
Cadrò sul prato raso a festa
e coltiverò l’erba per essere falciata
a settembre un’ultima volta.

Non lascerò niente di cui seppellirmi.
Nessun lamento, nessuna tomba d’accudire.
Allora invecchieranno gli inverni
e sbocceranno i crochi anche dentro la greppia di questa stalla,
perché sarò il fieno e come il fieno sarò ruminata,
lontana in conclusione dai rosari e dalle preghiere.

Mi unirò a un soffitto muto,
a un pavimento rivestito di letame.
E sarà mio dolcissimo ritorno
il silenzio che qui divora il tempo tra mattino e sera,
la veglia di un ramo d’ulivo,
riposto a ogni Pasqua
da mani ricolme di fede
che guarderò continuare.



da "la terra più del paradiso" - Giulio Einaudi editore - 2008






ROBERTA DAPUNT: mënder tlap inće nos adinfit söl monn
(gregge minore anche noi in affittanza sul mondo)
[Modificato da lunasepolta 09/02/2010 07:52]

Leda






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Post: 1.681
09/02/2010 09:06
 
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Mi hai levato Poesia semplice e messo Poesia triste, che è triste e semplice insieme.
sono rimasta molto colpita dalla poetica di questa autrice che in qualche modo si concilia con la mia (fatto il dovuto paragone) o con quello che spesso vado ricercando a livello stilistico e con la malinconia di fondo presente in ogni mio testo.
la leggo e mi tocca qualcosa nel cuore. mi chiedo se si possa essere così tristi, così tormentati... mi rispondo di sì. nel momento in cui si orienta la vita ad una continua ricerca, difficilmente si placherà il tormento interiore, l'insoddisfazione di ciò che ancora non si trova. ma riesco anche ad immaginare una Roberta Dapunt che guardando il prato verde sorrida, riconciliandosi con Dio, con la Terra, direi io.



"La più alta forma di intelligenza umana è la capacità di osservare senza giudicare." (Jiddu Krishnamurti)
robertadaquino.wordpress.com



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Post: 547
09/02/2010 09:57
 
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Il fatto è che "poesia semplice" non l'ho ancora trovata.
[SM=g8130] Torno alla carica

Leda






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Post: 547
09/02/2010 10:09
 
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cercando, ho trovato la recensione completa di Tesio:







Roberta Dapunt, una voce folgorante, di spontanea innocenza


GIOVANNI TESIO (29 settembre 2008)

Eccolo qua il piccolo libro appena uscito nella «bianca» di Einaudi, La terra più del paradiso . Un libro di
corpo piccolo ma di grande intensità. Lo ha scritto la trentottenne Roberta Dapunt, che non è ignota agli annali della poesia (ha già pubblicato due libri ed è ben attiva nel mondo culturale della Ladinia dolomitica) ma che - grazie alla maggiore visibilità garantita dal marchio einaudiano - arriva a far sentire
la sua voce ben oltre i confini del maso di Ciaminades (Alta Val Badia) in cui vive.
Notizie minime che servono a collocare la poetessa e che un po' anche aiutano a entrare nel suo mondo, ma che non sono poi così indispensabili alla lettura dei testi.
Come diceva Goethe nell'epigrafe al Divan occidentaleorientale, «Chi vuole comprendere la poesia / deve andare nella terra della poesia;/ chi vuole comprendere il poeta/ deve andare nella terra del poeta». A contare, qui, più dei luoghi è la lettura di una poesia folgorante, la rivelazione di una voce granulosa e fortemente spirituale.
Contro tanta poesia che richiede lettori in qualche modo specializzati, la poesia della Dapunt sembra immediatamente toccare i vertici di una forza e di un'innocenza spontanee. E tuttavia non vorrei che si commettesse l'errore di pensare al frutto di un dire immediato. Tutt'altro.
Qui si arriva alla «semplicità » (c'è anche un testo rivolto alla madre, che s'intitola Poesia semplice) attraverso una dura macerazione, un vero e proprio percorso di spoliazione. Se mai sarebbe tutto da chiarire - specie rispetto alla presenza di una corporalità resistente e tesa - il rapporto di vicinato artistico
con Lois Anvidalfarei, lo scultore badiota che la Dapunt ha sposato nel '94 e da cui ha avuto le due figlie di poesia dolce.
Da La terra più del paradiso vengono le orazioni disarmate di una credente in cerca di fede:
«Divina solitudine della mia parete,/ cederei la penna per un giorno di fede». Le confessioni di una lotta (la triste raccolta) che abbisogna di chiarimenti: «Non contro te Dio cammino per notte insonne,/ ma perché
ho nell'anima un'estate malata/ e un solo pensiero marcio/ suda l'odore acre/ di quando le prugne vanno a male». Le presenze angeliche degli umili e degli ultimi, ma anche quelle così concrete e simboliche di una gallina che «ha da finire di morire». Il senso e il segno della «riservatezza rurale», l'«umile gioia dei giorni», le stagioni (molto l'inverno e il suo silenzio) che attraversano il cuore, l'esemplare ruminìo delle mucche che si estende all'uomo. Un mondo di chiaroscuri e spesso di interni: la stalla (urna e scrigno la greppia «colma del fieno raccolto»), la stanza (tabernacolo e arca), gli umili ingressi, la finestra nel buio («alla finestra devo la pazienza e l'aspettare»). Ma anche il prato e l'orto, anche la comunità («la mia gente»), la comunione dei vivi e dei morti, la compassione, i paragoni concreti, gli oggetti rustici, le immagini che sibilano come«un fruscio di falce». Versi musicalmente abrasi - prosastici - come questi: «È
raccogliere terra sputata dal fondo e seminarla,/ di nuovo, in segno di generosità verso essa ». Versi in lotta: «Per ora non chiedo altro,/ che di rimanermi muto, Dio». Versi - quando occorre - anche in ladino.
Versi inquieti (esilio in Corpus Domini): «Non conosco fuga né mai ripiegai le mie radici,/ ma qui, dentro i paesi delle mie genti conosciute,/ dentro questo tempo dei valori educati/ e delle molte solitudini, vicine
di casa,/ io sono in esilio./ In mezzo agli alberi, dentro all'erba, sotto i fiori,/ io sono la zolla staccata dei campi coltivati». Una poesia per nulla cantabile («Io non riesco, non mi è dato scrivere il bel canto»), ma di
profonda radice interiore, di accoglienza creaturale, di folgorante, religiosa, drammatica bellezza. Una poesia da non mancare


Leda






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Post: 711
10/02/2010 23:53
 
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L'ho letta qualche tempo fa, sul momento mi è molto piaciuta, ma dopo qualche settimana non mi ricordo nessuna poesia o verso in particolare, forse è troppo omogenea, non ha veri picchi, lampi di genio che ti marchiano a fuoco. Avete avuto la stessa impressione?

"Il poeta è puro acciaio, duro come una selce" Novalis

No Copyright: copia, remixa, diffondi.






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Post: 1.681
11/02/2010 00:05
 
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in effetti è una poesia quieta, scorre di un tormento tranquillo, eterogeneo, non si affida ad immagini d'effetto, bensì scorre mestamente nell'anima, riempiendola. almeno questo è quello che è successo a me, la semplicità delle sue parole, le immagini prese dalla natura, dalle scene quotidiane, portano con se concetti che condivido molto e che quindi mi restano.
però ad esempio ho fissa davanti agli occhi, quella dell'occhio del vitello che riflette la morte. mi ha colpito molto. non la cerco, non so nemmeno in che poesia è, ma mi è rimasta impressa...

"La più alta forma di intelligenza umana è la capacità di osservare senza giudicare." (Jiddu Krishnamurti)
robertadaquino.wordpress.com



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