00 27/08/2010 17:57
Ci insegnavano a odiarla fino dall’età della ragione.
L’inutilità della poesia può esserne punto di forza. Coprire l’intero ragionamento.

In Italia, pare, ci siano almeno ventimila persone che scrivono poesia, o almeno credono. Libri di poesia in un anno se ne vendono molto meno di ventimila. La proporzione numerica si commenta da sé. Gli autori sono molto più numerosi dei loro lettori, e buona parte degli autori di poesie ne sono, a loro volta, fruitori.

Come se l’intera produzione di scarpe, escluso l’invenduto, fosse appannaggio di calzolai, o quella del pane, di panettieri. Perdita completa del concetto di pubblica utilità, fine della poesia?

La poesia è inutile, fin dalle scuole, quando gli studenti vengono costretti a studiarla, a mettersela in bocca, ad avvertire un sapore molesto, estraneo al loro mondo. Appena possibile se ne allontanano prontamente rabbrividendo al ricordo. Fine della poesia?

La figura del poeta, autore di tanta fallimentare impresa, non aiuta certo la poesia a rimanere per strada. Anzi ve l’abbandona. Piccola, senza gambe né braccia, già morta. Il poeta è un patrigno indegno, perdente, sfigato. La figura, casomai, di un grande edonista, resa famosa da ben altri clamori.

I libri di poesia non si vendono. Sarebbe necessario creare un ammasso AIMA anche per queste produzioni ipertrofiche, costose, fuori tempo massimo, come già succede in agricoltura.
La melassa di superficie vivacchia e viene divorata in rete con effetti degenerativi sempre più drammatici. Fine della poesia?

Allora, a cosa serve ciò che scrivo? Onanismo da inchiostro su foglio elettronico? Tempo gettato in vece di cause più nobili? Tutta roba un po’ patetica. Certo, mi sono imbarcato in una bella impresa!